Nonostante gli sforzi profusi nel salvare i pazienti andati incontro ad un arresto cardiaco intraospedaliero, i tassi di sopravvivenza susseguenti ad una resuscitazione cardiopolmonare praticata in ospedale non sono superiori a quelli rilevati nel 1992, aggirandosi intorno al 18 percento dopo le dimissioni e risultando peggiori nel sesso maschile, nelle razze non bianche e nei pazienti anziani. Durante questo periodo, le linee guida relative al supporto vitale cardiaco acuto sono state aggiornate almeno due volte, e quindi era lecito attendersi almeno un piccolo miglioramento, ma ci si domanda a questo punto se non esista una soglia al di là della quale i metodi di resuscitazione cardiopolmonare in ospedale non possano più essere migliorati significativamente. Il dato rilevato però potrebbe anche indicare che, mentre la pratica in sé è stata migliorata, i pazienti che la ricevono siano invece più gravi e quindi candidati meno ideali alla procedura. Ciò sottolinea la necessità di un miglioramento della comunicazione fra medico e paziente, soprattutto in caso di pazienti anziani con malattie croniche. (N Engl J Med 2009; 361: 22-31).

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