• Vasopressina e adrenalina, un’associazione inutile
  • Camelia sboccia in Lombardia
  • Test della placoglobina per aritmie fatali
  • Ablazione simpatica per ipertensione resistente
  • Scompenso: warfarin non migliore dell’ASA
  • L’emicrania in gravidanza aumenta il rischio CV
  • Ecco i geni dell’infarto precoce
  • Acido linoleico riabilitato
  • Infarto ristretto con exenatide
  • Omocisteina predittiva nei grandi anziani
  • Ipertesi: ventricoli a posto con l’esercizio
  • Nuovi dati sul rischio cardiovascolare dei FANS
  • No ai sartani se frazione d’eiezione conservata
  • ASA non riduce rischio vascolare nel diabete
  • L’impiego degli antipiastrinici nel post infarto
  • Mortalità aumentata con rosiglitazone
  • Angiografia standard superiore all’angioTac
  • Anziano, iperteso e fibrillante
  • Stenting aortico risolve la coartazione?
  • Il diabetico insufficiente può conservare l’eiezione
  • Efficacia predittiva della Troponina P
  • Previsioni alla dimissione
  • Cardiomiopatia da screenare in fretta
  • Prima dell’intervento meglio le statine

AGGIORNAMENTI – CARDIOLOGIA33
=============================

Vasopressina e adrenalina, un’associazione inutile
La combinazione di vasopressina e adrenalina nella resuscitazione cardiopolmonare (CPR) non migliora gli esiti clinici, fra i quali la sopravvivenza al ricovero ospedaliero o quella al ritorno alla circolazione spontanea, rispetto all’uso della sola epinefrina. La mancata superiorità della terapia combinata, a prescindere dal sottogruppo di pazienti, suggerisce che sarebbe futile aggiungere la vasopressina al trattamento standard nella CPR con supporto vitale avanzato. Benchè l’epinefrina rimanga l’agente di supporto pressorio di scelta per la CPR, la prognosi dei pazienti con arresto cardiaco è infausta, a prescindere dalla dose di epinefrina utilizzata. La vasopressina era stata proposta come alternativa all’epinefrina quando è stato scoperto che i pazienti con arresto cardiaco resuscitati con successo hanno maggiori livelli di vasopressina endogena rispetto a quelli deceduti. Benché la vasopressina sia una possibile alternativa all’epinefrina durante la CPR, le esperienze cliniche con questo trattamento sono scarsamente documentate. Uno studio aveva suggerito che l’aggiunta della vasopressina all’epinefrina fosse superiore alla sola epinefrina nel trattamento dell’arresto cardiaco asistolico, mentre altri studi avevano portato a risultati più equivocabili. Studi sulla CPR in modelli animali avevano indicato che la vasopressiva incrementa il flusso ematico negli organi vitali e l’apporto cerebrale di ossigeno, migliorando la sopravivenza a breve termine. (N Engl J Med. 2008; 359: 21-30)

Camelia sboccia in Lombardia
Acronimo di rischio CArdiovascolare, sindrome Metabolica, malattie Epato-biLIari e Autoimmuni, lo studio epidemiologico CA.ME.LI.A partirà il prossimo 4 maggio ad Abbiategrasso coinvolgendo, nel corso di 2 anni, 3.500 cittadini di età compresa tra i 18 e i 75 anni, scelti con un criterio di casualità direttamente dall’Istituto Superiore di Sanità. Il progetto ha rilevanza nazionale in quanto prevede lo sviluppo di uno studio gemello a Cittanova, paese in provincia di Reggio Calabria considerato rappresentativo dell’Italia Meridionale. L’Assessore alla Sanità Luciano Bresciani ha ricordato che: “La Regione Lombardia è sempre di più impegnata a investire sulla prevenzione, quale strumento fondamentale, da un lato, per assicurare un miglior stato di salute ai cittadini che risiedono in Lombardia, dall’altro, per intervenire anche da questo versante sul versante della razionalizzazione della spesa sanitaria. Da qui la decisione di partecipare allo studio su alcune delle patologie maggiormente frequenti ed invalidanti, sostenendolo con un contributo di 400mila euro. Dai risultati sono sicuro otterremo preziose informazioni per migliorare gli stili di vita e per garantire una maggior appropriatezza delle cure”. La ricerca sarà possibile grazie alla collaborazione tra Università degli studi di Milano, i medici di Medicina Generale dell’ASL Milano 1 e l’AO di Legnano-Ospedale di Abbiategrasso.

Test della placoglobina per aritmie fatali
Un nuovo test diagnostico, basato sulla riduzione della proteina desmosomiale placoglobina, può essere utilizzato per la diagnosi di cardiomiopatia aritmogena ventricolare destra (ARVC), una delle cause principali di morte improvvisa nei giovani e negli atleti. La metodica è descritta in uno studio condotto sulle biopsie endomiocardiche ottenute da 11 soggetti con ARVC e dall’autopsia di 10 soggetti normali. L’esame immunoistochimico ha evidenziato una marcata riduzione della placoglobina, una proteina che lega le molecole di adesione al citoscheletro, a livello dei dischi intercalati nei campioni con ARVC ma non nei controlli, né in biopsie miocardiche provenienti da pazienti con altri tipi di cardiomiopatie. Testato alla cieca su una banca di campioni bioptici, con e senza ARVC, il nuovo test ha mostrato una sensibilità del 91% e una specificità dell’82%, con valori predittivo positivo e negativo rispettivamente dell’83% e del 90%.

Ablazione simpatica per ipertensione resistente
La denervazione simpatica dell’arteria renale effettuata per via percutanea permette di ottenere sostanziali e prolungate riduzioni dei valori pressori nei pazienti con ipertensione resistente. È quanto riportano gli autori di uno studio che ha sperimentato la nuova tecnica su 45 pazienti con pressione sistolica ≥ 160 mmHg nonostante l’assunzione di almeno tre farmaci antipertensivi. Il trattamento prevedeva l’introduzione di un catetere in ognuna delle due arterie renali per via femorale e l’ablazione per radiofrequenza delle terminazioni nervose simpatiche arteriose con lo scopo di ridurne l’iperattività. A seguito della procedura, si è osservata una progressiva riduzione dei valori di pressione sistolica e diastolica da -14/-10 mmHg dopo un mese, a -27/-17 mmHg a 12 mesi dall’intervento. La nuova tecnica sembra semplice (l’intervento dura circa 40 minuti) ed efficac, tuttavia rimane il dubbio circa la sua efficacia a lungo termine: un certo grado di reinnervazione, almeno per quanto riguarda le fibre simpatiche efferenti, avviene con il tempo.

Scompenso: warfarin non migliore dell’ASA
Nei pazienti con scompenso cardiaco e ritmo sinusale, il trattamento con warfarin o clopidogrel non risulta migliore dell’acido acetilsalicilico nella prevenzione degli eventi tromboembolici. Queste le conclusioni dello studio WATCH (Warfarin and Antiplatelet Therapy in Chronic Heart failure), condotto su 1.587 soggetti con ridotta frazione di eiezione e ritmo sinusale, randomizzati a ricevere warfarin (Inr target: 2,5-3,0), ASA (162 mg/die) o clopidogrel (75 mg/die) per almeno 12 mesi. L’incidenza di decessi, infarto miocardico e ictus, che costituiva l’end-point primario dello studio, è risultata sostanzialmente sovrapponibile nei tre gruppi di trattamento. Tuttavia, la terapia con warfarin era associata a un ridotto rischio di ictus rispetto ad ASA e clopidogrel e a una diminuzione delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco rispetto all’ASA (16,5% verso 22,2%), con un aumento però degli episodi di sanguinamento. Nonostante ciò gli autori sostengono che, “data l’assenza di differenze significative in termini di eventi tromboembolici e di sopravvivenza, questi dati non giustificano l’astensione sistematica dal trattamento con ASA nei pazienti con scompenso cardiaco cronico e non supportano l’ipotesi che il warfarin e il clopidogrel siano superiori all’ASA in questa categoria di pazienti”.
Circulation 2009; 119: 1616-24

L’emicrania in gravidanza aumenta il rischio CV
La presenza di emicrania durante la gravidanza potrebbe essere associata a un aumentato rischio di patologie cardiovascolari (CV), in particolare ictus e infarto miocardico. È quanto emerge da una vasta analisi di popolazione condotta negli Stati Uniti su più di 18 milioni di schede di dimissioni per ricoveri collegati alla gravidanza (pre-parto, parto e post-parto), sulle quali sono stati valutati i tassi di emicrania e di malattie cardiovascolari. La prevalenza di emicrania non è risultata molto alta: solo 185 per 100mila donne ricoverate. L’emicrania era legata a un aumentato rischio di ictus (odds ratio 15,8), in particolare di ictus ischemico (OR 30,7). Inoltre, le donne con diagnosi di emicrania alla dimissione presentavano anche un aumento di quasi 5 volte del rischio di infarto miocardico (OR 4,9), ma non di altre malattie non vascolari (come polmoniti, infezioni o emorragie). “In mancanza di dati prospettici, è difficile definire la relazione causale tra emicrania e patologie cardiovascolari” commentano gli autori della ricerca. “Tuttavia, è possibile ipotizzare che alcune donne con emicrania non riescano a compensare adeguatamente gli stress vascolari associati alla gravidanza (aumento del volume ematico e della frequenza cardiaca, fenomeni trombogenici) e ciò favorirebbe l’insorgere di complicazioni vascolari”.
Bmj 2009; 338: b664

Ecco i geni dell’infarto precoce
Polimorfismi genetici e IMA precoce: presi singolarmente aumentano di poco il rischio, tutti insieme aggiungono molte informazioni alla comprensione dei meccanismi eziologici
La mappa delle aree del DNA legate al rischio di un attacco cardiaco precoce, firmata dal Myocardial Infarction Genetics Consortium, un team internazionale di ricercatori, è il frutto di uno studio su 26.000 persone reclutate in 10 Paesi. Sono stati analizzati i dati genetici di 13.000 controlli sani e 13.000 soggetti colpiti da infarto in età precoce (prima dei 60 per le donne e prima dei 50 per gli uomini). I risultati dello studio caso-controllo sono pubblicati su Nature Genetics e portano la firma, tra gli altri, anche di Diego Ardissino, dell’università di Parma, e Pier Mannuccio Mannucci, dell’università di Milano. “Da decenni si sapeva che il pericolo di infarto tocca in particolare alcune famiglie, e che alcuni di questi cluster familiari sono collegati a differenze nella sequenza del DNA”, spiega Sekar Kathiresan, responsabile del servizio di Cardiologia preventiva del Massachusetts General Hospital di Boston (USA), che ha coordinato la ricerca. La ricerca, durata oltre 10 anni, ha permesso di identificare 9 regioni del genoma umano coinvolte nella suscettibilità all’infarto in età precoce, vale a dire meno di 50 anni per gli uomini e meno di 60 per le donne. Tre di queste regioni sono un’assoluta novità perché non erano mai state associate a possibili rischi cardiaci. “Abbiamo isolato – continua Kathiresan – una serie di polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) che, a quanto pare, sono responsabili dell’aumento di rischio cardiaco in determinate famiglie”. Questi dati aiuteranno a individuare i meccanismi che aprono le porte all’infarto e a sviluppare farmaci mirati. Secondo gli studiosi, infatti, le persone che possiedono le mutazioni scoperte presentano un rischio doppio di infarto rispetto chi ne ha solo una o poco più. “Siamo ottimisti – conclude Kathiresan – sui possibili risultati delle ricerche, mirate a indagare sui meccanismi legati alle nuove varianti mappate. Se infatti oggi abbiamo già a disposizione strategie efficaci per ridurre il pericolo per il cuore, le persone con un rischio genetico più elevato potranno comunque beneficiare di interventi ancor più precoci”.

Acido linoleico riabilitato
Oli vegetali, noci, semi di sesamo e soia per proteggere il cuore e mantenere pulite le arterie. In un nuovo report i cardiologi dell’American Heart Association (AHA) consigliano di introdurre nella dieta quotidiana acidi grassi polinsaturi omega-6, meglio ancora se utilizzati per sostituire i grassi saturi. Gli esperti spiegano che gli omega-6 dovrebbero rappresentare il 5-10% dell’apporto calorico giornaliero, e che la dose ideale da consumare varia da 12 a 22 grammi al dì, in base a età, sesso e stile di vita più o meno attivo. Il report riabilita inoltre l’acido linoleico, l’omega-6 più diffuso tra quelli che si assumono con la dieta (85-90% del totale). Una molecola finora controversa, accusata di aumentare il rischio cardiovascolare, più che di ridurlo, promuovendo meccanismi di tipo infiammatorio. L’AHA assicura però che – se è vero che l’acido arachidonico, un possibile prodotto del linoleico, è coinvolto negli stadi iniziali della cascata infiammatoria – dall’acido linoleico derivano anche molecole antinfiammatorie che compensano l’effetto infiammatorio. In altre parole, i benefici sono superiori ai rischi. In particolare, da una metanalisi di più studi clinici risulta che rimpiazzare gli acidi grassi saturi con gli omega-6 riduce del 24% il pericolo di eventi cardiaci.

Infarto ristretto con exenatide
Il farmaco, approvato per il trattamento del diabete, grazie alle sue proprietà anti-apoptotiche è in grado di ridurre le dimensioni dell’area infartuata e di aumentare la funzionalità cardiaca se aggiunto alla terapia riperfusionale dopo infarto miocardico acuto. È quanto emerge da uno studio condotto su un modello animale di maiali sottoposti a legamento dell’arteria coronaria per 75 minuti e successiva riperfusione. Negli animali randomizzati al trattamento con exenatide, si è osservata una riduzione delle dimensioni dell’area infartuata rispetto al gruppo trattato con soluzione salina (32,7 + 6,4% verso 53,6 + 3,9%). Inoltre, la somministrazione di exenatide ha anche ridotto il deterioramento della funzione sistolica e diastolica, incrementato l’espressione di Bcl-2 e Akt miocardica fosforilata, diminuito quella di caspasi-3 attivata e ridotto lo stress ossidativo nucleare. Sulla base di questi risultati, è attualmente in corso in Danimarca uno studio di fase 2/3 per la valutazione degli effetti di exenatide nel quadro dell’angioplastica primaria.
Jacc 2009; 53: 501-10

Omocisteina predittiva nei grandi anziani
Il dosaggio plasmatico dell’omocisteina risulta l’unico fattore predittivo di mortalità per cause cardiovascolari nei soggetti di età molto avanzata. Queste le conclusioni di uno studio osservazionale, condotto su un campione di 302 soggetti di 85 anni senza precedenti patologie cardiovascolari. Con un follow-up di 5 anni, si sono verificati complessivamente 108 decessi, di cui il 32% per cause cardiovascolari. Nessuno dei classici fattori di rischio, inseriti all’interno del Framingham Risk Score sono risultati in grado di predire adeguatamente la mortalità cardiovascolare. Al contrario, tra i nuovi biomarker (omocisteina, acido folico, proteina C reattiva e interleuchina 6), l’omocisteina ha mostrato il maggior potere predittivo. L’aggiunta di altri fattori al modello basato sull’omocisteina non ne aumentava il potere discriminante. “I metodi correnti per predire il rischio cardiovascolare e identificare i pazienti da sottoporre a prevenzione primaria potrebbero non essere efficaci nei soggetti molto anziani”, commentano gli autori della ricerca.
BMJ 2009 Jan 8; 338: a3083

Ipertesi: ventricoli a posto con l’esercizio
Contrariamente a quanto osservato nei soggetti normotesi, un regolare esercizio fisico aerobico può prevenire l’aumento della massa ventricolare sinistra e lo sviluppo di ipertrofia ventricolare nei soggetti con preipertensione. È quanto emerge da un’analisi prospettica condotta sui 454 partecipanti allo studio Harvest (Hypertension and ambulatory recording Venetia study). Il follow-up mediano è durato 8,3 anni e si sono registrate 32 diagnosi ecocardiografiche di ipertrofia ventricolare sinistra. Dopo aggiustamento per tutti i fattori potenzialmente confondenti, il rischio di sviluppare ipertrofia è risultato significativamente minore nei soggetti che svolgevano attività fisica regolare rispetto ai sedentari (odds ratio: 0,24). L’effetto protettivo era indipendente dalla diminuzione dei valori di pressione arteriosa osservata nel gruppo attivo. Gli autori della ricerca speculano che i minori livelli di attività reninica plasmatici, e di catecolamine urinarie, osservati fra i partecipanti fisicamente attivi potrebbero controbilanciare lo stimolo fisiologico all’aumento della massa ventricolare sinistra indotto dall’esercizio fisico.
Eur heart j 2009; 30: 225-32

Nuovi dati sul rischio cardiovascolare dei FANS
Nei pazienti con scompenso cardiaco, l’assunzione di FANS si associa a un aumento di mortalità e ospedalizzazione per infarto miocardico e per scompenso, indipendentemente dalla molecola usata. Il nuovo allarme sul rischio cardiovascolare viene da uno studio retrospettivo danese condotto su 107.092 pazienti, con pregressa ospedalizzazione per scompenso cardiaco nel decennio 1995-2004. Complessivamente al 33,9% dei pazienti era stato prescritto almeno un FANS dopo la dimissione. All’analisi multivariata, il rischio di decesso più alto è risultato associato all’assunzione di diclofenac (HR 2,08) e di rofecoxib (1,70) e celecoxib (1,75). Un rischio minore, ma significativo, era presente con l’uso di ibuprofene (1,31) e di altri FANS (1,28). Anche il naprossene, considerato il farmaco più sicuro della categoria, ad alte dosi sembra raddoppiare la mortalità (HR 0,88 sotto i 500 mg/die e 1,97 oltre i 500 mg/die). “Dobbiamo aumentare la consapevolezza di questo problema, in particolare fra i medici di medicina generale – ha dichiarato Gunnar Gislason, primo firmatario della ricerca – poiché i FANS vengono largamente usati nella pratica medica di base. Il fatto che alcuni di questi farmaci siano disponibili senza prescrizione peggiora ulteriormente la situazione”.
Arch Intern Med 2009; 169: 141-9

No ai sartani se frazione d’eiezione conservata
Il trattamento con un bloccante del recettore dell’angiotensina II (irbesartan) non migliora l’andamento clinico dei pazienti con scompenso cardiaco e frazione di eiezione conservata. Sulla base di quanto osservato nei soggetti con scompenso cardiaco a bassa frazione di eiezione, in cui il blocco del sistema renina-angiotensina induce effetti favorevoli, i ricercatori dello studio I- Preserve (Irbesartan in heart failure with preserved ejection fraction) hanno randomizzato 4.128 pazienti con scompenso cardiaco e frazione di eiezione > 45% a ricevere irbesartan 300 mg/die o placebo. Con un follow-up mediano di 49,5 mesi, nessuna differenza è stata vista fra i due gruppi per quanto riguarda l’incidenza di mortalità globale od ospedalizzazione per cause cardiovascolari (end-point primario composito). La mortalità globale è risultata pari a 52,6 per 1.000 pazienti/anno nel gruppo irbesartan e a 52,3 per 1.000 pazienti/anno nel gruppo placebo (hazard ratio: 1,00). I tassi di ospedalizzazione per cause cardiovascolari sono stati 70,6 e 74,3 per 1.000 pazienti/anno, rispettivamente (hazard ratio: 0,95). “In questi pazienti con frazione di eiezione conservata, lo scompenso cardiaco potrebbe essere legato a meccanismi ad oggi non ben caratterizzati, come un alterato controllo renale di sali e fluidi o una disfunzione ventricolare diastolica per ipertrofia miocardica e fibrosi – commentano gli autori della ricerca – meccanismi su cui il blocco del sistema renina-angiotensina, con ACE-inibitori o sartani, potrebbe non avere effetto”.
Massie BM et al. Nejm 2008; 10.1056/NEJMoa0805450

ASA non riduce rischio vascolare nel diabete
L’assunzione profilattica di basse dosi di acido acetilsalicilico (ASA) non riduce il rischio di eventi aterosclerotici, pur mostrando degli effetti positivi sulla mortalità da cause cardiovascolari, nei pazienti con diabete mellito tipo 2. Sono queste le conclusioni di uno studio randomizzato multicentrico condotto su 2.539 pazienti diabetici, di età compresa tra i 30 e gli 85 anni, senza un storia precedente di malattia aterosclerotica. Con un follow-up mediano di 4,37 anni, l’incidenza di eventi aterosclerotici (cardiopatia ischemica, ictus o arteriopatia periferica) è stata di 13,6 per 1.000 pazienti/anno nel gruppo trattato con ASA e di 17,0 per 1.000 pazienti/anno nel gruppo che non ha ricevuto ASA (hazard ratio, HR: 0,80). Tuttavia, il rischio di eventi fatali coronarici e cerebrovascolari è risultato significativamente ridotto nel gruppo ASA (HR: 0,10), mentre la mortalità globale non era influenzata dall’assunzione del farmaco. Inoltre, un trend non significativo verso un maggior rischio di sanguinamento, in particolare gastrointestinale, è stato osservato nei pazienti in trattamento con ASA. Sebbene l’incidenza di eventi cardiovascolari sia risultata inaspettatamente bassa in tutti i pazienti arruolati, suggerendo una possibile insufficienza statistica dello studio nell’identificare i vantaggi collegati all’assunzione di ASA, questi dati sembrano indicare che, almeno per quanto riguarda i pazienti più giovani, la prevenzione primaria con ASA nei diabetici andrebbe valutata caso per caso, dopo un attento esame del rapporto rischi/benefici.
Ogawa H et al. Jama 2008; 300: 2134-41

L’impiego degli antipiastrinici nel post infarto
Nei pazienti che vanno incontro a un episodio di sanguinamento durante il ricovero per infarto miocardico acuto, un trattamento antipiastrinico alla dimissione viene prescritto meno frequentemente rispetto ai pazienti senza sanguinamento e spesso non inserito anche dopo un anno di follow-up. La mancanza di una profilassi antipiastrinica in questi pazienti con complicanze emorragiche potrebbe spiegare almeno in parte la loro peggiore prognosi a lungo termine. Questa l’ipotesi alla base di uno studio che ha esaminato la prescrizione di acido acetilsalicilico (ASA o tienopiridine alla dimissione e 1, 6 e 12 mesi dopo un episodio infartuale in 2.498 pazienti arruolati nello studio Premier (Prospective Registry Evaluating Myocardial Infarction: Events and Recovery). Una complicazione emorragica durante il ricovero si è registrata in 301 casi (12%). In questi pazienti, un trattamento antipiastrinico alla dimissione era meno frequente rispetto ai casi senza sanguinamento (adjusted odds ratio: 0,45). Dopo un mese, la probabilità di una terapia con ASA rimaneva minore (odds ratio: 0,68), mentre l’uso di tienopiridine tendeva a divenire simile nei due gruppi. A un anno dall’evento infartuale, l’uso di trattamento antipiastrinico era equivalente nei pazienti con e senza sanguinamento. “Nei pazienti con complicanze emorragiche durante il ricovero per infarto miocardico, si osserva un minore uso di farmaci antipiastrinici fino a 6 mesi dopo la dimissione, in particolare nei casi non seguiti durante il follow-up da un cardiologo specialista. I medici dovrebbero valutare costantemente l’opportunità di reinserire questa efficace forma di prevenzione secondaria dopo la risoluzione dell’evento emorragico”, concludono gli autori della ricerca.
Wang TY et al. Circulation 2008; 118: 2139-45

Mortalità aumentata con rosiglitazone
Pazienti anziani con diabete mellito, trattati con rosiglitazone come ipoglicemizzante orale, presentano un rischio maggiore di mortalità globale e di scompenso cardiaco rispetto ai pazienti che assumono pioglitazone. Questo è quanto emerge da un’analisi, compiuta su più di 28mila pazienti iscritti a Medicare, destinata a riaprire le polemiche circa i possibili maggiori effetti collaterali cardiocircolatori del rosiglitazone rispetto agli altri componenti della classe dei tiazolidinedioni. Tutti i pazienti arruolati, di età superiore ai 65 anni, hanno iniziato un trattamento con pioglitazone (50,3%) o con rosiglitazone (49,7%), in un periodo compreso tra il 2000 e il 2005. Dopo aggiustamento per i fattori confondenti, tra i pazienti in terapia con rosiglitazone è stato osservato un aumento di mortalità globale pari al 15% e di scompenso cardiaco pari al 13% rispetto al gruppo trattato con pioglitazone. Nessuna differenza era invece evidente tra i due gruppi per quanto riguarda l’incidenza di infarto miocardico o ictus. Sebbene i risultati dello studio vadano nella direzione di alcune metanalisi pubblicate nell’ultimo anno, riportanti un aumento del rischio di infarto miocardico e di eventi cardiovascolari associato al trattamento con rosiglitazone, non va dimenticata, come sottolineano gli stessi autori, la natura osservazionale e retrospettiva della ricerca, con tutti i fattori confondenti che possono derivare dalla mancanza di un disegno randomizzato.
Winkelmayer WC et al. Arch intern med 2008; 168: 2368-75

Angiografia standard superiore all’angioTac
L’angiografia tomografica computerizzata a spirale (CT angiografia) è stata proposta come alternativa non invasiva all’angiografia coronarica convenzionale per identificare la presenza di ostruzioni coronariche. I risultati dello studio Core-64 (Coronary artery evaluation using 64-row multidetector computed tomography angiography), pubblicati sul Nejm, dimostrano che, sebbene in grado di identificare con accuratezza la presenza e la severità di lesioni coronariche, la tecnica non può ad oggi sostituire l’angiografia convenzionale. In totale 291 pazienti con sospetta coronaropatia sono stati analizzati con CT angiografia e angiografia convenzionale in laboratori indipendenti. La CT angiografia ha mostrato una sensibilità dell’85% ed una specificità del 90%, con un valore predittivo positivo del 91% e un valore predittivo negativo dell’83%, e un’abilità simile a quella dell’angiografia convenzionale nell’identificare i pazienti successivamente sottoposti a rivascolarizzazione. “Nonostante la sua abilità nell’identificare l’anatomia coronarica, la CT angiografia ha classificato erroneamente il 13% dei pazienti, in rapporto all’angiografia convenzionale, quando la soglia per la definizione di stenosi ostruttiva è stata fissata al 50% – ammettono gli autori dello studio. – Per questo, visti i valori predittivi positivi e negativi non ottimali, la metodica non è ancora al punto di potersi sostituire all’angiografia convenzionale”.
Miller JM et al. N Engl J Med 2008; 359: 2324-36

Anziano, iperteso e fibrillante
I pazienti anziani ipertesi che sviluppano fibrillazione atriale presentano un maggior rischio di eventi cardiovascolari e mortalità rispetto a quelli che mantengono il normale ritmo sinusale. In base a quanto osservato, l’incidenza della fibrillazione atriale non differisce significativamante fra i pazienti anziani ipertesi sottoposti a trattamento e quelli trattati con placebo, ma la media di tutti i valori misurati per la pressione sistolica nell’arco di 4,5 anni di monitoraggio risulta significativamente più elevata nei pazienti che sviluppano fibrillazione atriale, il che suggerisce che uno scarso controllo pressorio incrementi il rischio di sviluppare fibrillazione atriale. Anche la presenza di anomalie ecocardiografiche di base predice lo sviluppo della fibrillazione atriale. La presenza di questa aritmia incrementa significativamente il rischio complessivo di eventi cardiovascolari, morte rapida ed insufficienza ventricolare sinistra totale. Dopo 4,7 anni, inoltre, la mortalità cardiovascolare totale e quella complessiva risultano significativamente maggiori nei pazienti che sviluppano fibrillazione atriale rispetto agli altri, ed ancor di più dopo 14 anni. (Hypertension 2008; 51: 1552-6)

Stenting aortico risolve la coartazione?
Lo stenting aortico migliora la funzionalità centrale dell’arteria e la pressione sistolica diurna senza però migliorare le disfunzioni vascolari periferiche nei soggetti adulti con coartazione aortica. La riparazione chirurgica di questa lesione di solito abolisce il gradiente pressorio dell’arco aortico, ma la contribuzione relativa, l’importanza del gradiente residuo ed il più ampio assetto delle disfunzioni vascolari rimangono poco chiari in questi pazienti. E’ stato dimostrato che la risoluzione della coartazione nell’adulto porta a miglioramenti progressivi della pressione e dei parametri vascolari durante la normale vita quotidiana nell’arco di sei mesi. Per i pazienti con ipertensione e gradiente pressorio nella coartazione bisognerebbe pertanto prendere in considerazione lo stenting se clinicamente idoneo. L’ipertensione non si normalizza completamente dopo l’intervento, e ciò potrebbe essere dovuto ad anomalie residue della parete aortica ed alla persistenza di disfunzioni vascolari periferiche, il che sottolinea la necessità di una sorveglianza continua di questi pazienti anche dopo la risoluzione della coartazione. Essa è in realtà una patologia sistemica: il segmento aortico ostruito viene soltanto riparato, ma le anomalie arteriose strutturali e funzionali dell’aorta prossimale e delle sue branche persistono: la riparazione chirurgica, lo stenting o la dilatazione con palloncino aboliscono l’ostruzione aortica, ma non possono curare l’ipertensione sistemica. (Heart 2008; 94: 919-24 e 828-9)

Il diabetico insufficiente può conservare l’eiezione
Il diabete è un fattore di rischio indipendente di morbidità cardiovascolare e mortalità nei pazienti con insufficienza cardiaca a prescindere dalla frazione di eiezione, ma ancor di più nei soggetti con frazione di eiezione preservata. L’importanza prognostica della funzionalità ventricolare nei pazienti diabetici con insufficienza cardiaca non era finora nota. Il fatto che il diabete conferisca un maggior incremento del rischio relativo di mortalità cardiovascolare e ricovero per insufficienza cardiaca nei pazienti con frazione di eiezione preservata che negli altri rappresenta una novità. Il ricovero per insufficienza cardiaca, in termini assoluti, si riscontra più facilmente in questi pazienti che in quelli con bassa frazione di eiezione non diabetici. Gli effetti collaterali del diabete, come la diminuzione della compliance arteriosa, il peggioramento della funzionalità endoteliale, l’angiopatia renale e la suscettibilità alla fibrillazione atriale, potrebbero anche avere una maggiore importanza nei pazienti in cui la disfunzione predominante è quella diastolica. (Eur Heart J 2008; 29: 1377-85)

Efficacia predittiva della Troponina P
Elevati livelli di TpP sono associati ad un aumento del rischio di morte o complicazioni ischemiche nei pazienti con coronaropatie acute. L’incorporazione di un marcatore dell’avvenuta attivazione della coagulazione, come la TpP, nei fattori di rischio cardiovascolare conclamati potrebbe fornire approfondimenti complementari di grande valore nella valutazione del rischio dei pazienti con coronaropatie acute. Il livello di TpP risulta solo debolmente associato a PCR ad elevata sensibilità, troponina cardiaca di tipo I e peptide natriuretico di tipo B: dopo approssimazione in base a questi marcatori ed alle caratteristiche cliniche del paziente, il livello di TpP rimane comunque un significativo fattore predittivo di infarto, morte per cause cardiache e complicazioni. Non è comunque ancora certa l’efficacia predittiva della misura della TpP data la diversità biologica di ogni paziente. E’ persino probabile che alcuni pazienti vengano danneggiati da decisioni cliniche che si basano solo su queste valutazioni. (J Am Coll Cardiol 2008; 51: 2422-31)

Previsioni alla dimissione
Al momento delle dimissioni dopo un ricovero per un episodio di coronaropatia acuta, è meglio che la pressione diastolica non sia troppo bassa, ne va della sopravvivenza a lungo termine. Questo è quanto si evince dai risultati di uno studio olandese che ha coinvolto 1053 pazienti (età media 64,9 +/- 12,6 – 63% maschi) sopravvissuti ad un episodio cardiocoronarico acuto per verificare se i valori pressori alla dimissione potessero costituire un parametro indipendente per la previsione di mortalità nel lungo termine. Significativamente, la sola pressione diastolica molto bassa si è riscontrata nei pazienti più anziani che presentavano anche un maggiore punteggio GRACE (Global Registry of Acute Coronary Events) con un indice più elevato di mortalità nei due anni successivi. Integrando i dati pressori con il punteggio GRACE, con l’inclusione dei medicinali cardioprotettivi e della rivascolarizzazione intraospedaliera in un modello analitico, si è visto che un minor punteggio GRACE, una maggiore pressione diastolica e il trattamento con beta-bloccanti e statine, risultavano come fattori predittivi indipendenti di sopravvivenza. Dunque la sola misura della pressione diastolica può aggiungere molto al punteggio GRACE per completare le previsioni prognostiche nel lungo termine di un evento coronarico acuto. (Am J Cardiol 2008; 101: 1239-41).

Cardiomiopatia da screenare in fretta
I bambini con un’anamnesi familiare positiva per cardiomiopatia ipertrofica dovrebbero essere sottoposti a screening in età precoce, dato che il rischio di morte improvvisa presenta un picco precoce. Le forme familiari della malattia spesso mostrano una marcata progressione dell’ipertrofia durante la pubertà, il che talvolta viene preso come giustificazione per ritardare lo screening familiare fin dopo la pubert¨¤. Le attuali linee guida raccomandano lo screening dopo i 12-15 anni di età. Il rischio di morte improvvisa nelle bambine giunge ad un picco a 10-11 anni di età, ed a 15-16 anni nei maschi. La pratica, fuorviante, di spostare le fasce medie di mortalità da cardiomiopatia ipertrofica familiare al di là dell’età pediatrica dovrebbe dunque essere abbandonata. (Eur Heart J 2008; 29: 1160-7)

Prima dell’intervento meglio le statine
I trattamenti preoperatori con statine riducono le complicanze. Questo si evince in sostanza da una recente revisione pubblicata su European Hearth Journal. In particolare, dall’analisi degli studi considerati, nei pazienti trattati con statine nel periodo precedente un intervento cardochirurgico, si evidenziava una riduzione significativa di: mortalità a breve termine, ictus e fibrillazione atriale. Queste evidenze supportano la necessità di modificare l’attuale pratica clinica, sia per il cardiologo che per il cardiochirurgo, responsabili in primo grado per l’assistenza perioperatoria ottimale dei loro pazienti. In termini pratici, i pazienti che vengono sottoposti a bypass coronarico, che corrispondono al 90% di quelli esaminati nella review, dovrebbero dunque sempre ricevere un trattamento con statine. Una soluzione a parte si deve invece trovare per i pazienti sottoposti a chirurgia valvolare isolata, in quanto i dati sull’efficacia delle statine in questi casi non sono sufficienti per la raccomandazione al trattamento. E comunque sono necessari ulteriori studi randomizzati, poiché attualmente non è possibile indicare la miglior statina da somministrare e a quali dosaggi ottimali, né per quanto tempo. (Eur Heart J online 2008, pubblicato il 30/5)

Tags:

Leave a Reply

You must be logged in to post a comment.