Stop agli interventi chirurgici senza speranza anche se c’è il ‘consenso informato’ da parte del paziente. Lo ha stabilito la Cassazione, sostenendo che i chirurghi che affrontano operazioni che non hanno una speranza agiscono “in dispregio al codice deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento diagnostico terapeutico”. Il principio è stato sancito dalla IV sezione penale (sentenza 13746), nell’affrontare il caso relativo a un intervento chirurgico avvenuto l’11 dicembre 2001 all’ospedale San Giovanni di Roma, nel corso del quale tre chirurghi avevano operato una signora 44enne madre di due bambine, alla quale avevano dato non più di sei mesi di vita perché affetta da neoplasia pancreatica con diffusione generalizzata.Come ricostruisce la sentenza di Piazza Cavour, la signora, disposta a tutto pur di ottenere un sia pur breve prolungamento della vita, aveva dato il suo consenso informato ai medici per tentare un intervento disperato. Va detto che il reato di omicidio colposo nei confronti dei tre imputati si è prescritto, ma la Cassazione non ha potuto pronunciare il proscioglimento nel merito in quanto, come aveva già stabilito la Corte d’appello di Roma il 28 maggio 2009, “sussiste la condotta colposa contestata” a Cristiano Huscher, all’epoca chirurgo primario del San Giovanni, e agli altri due medici Andrea Mereu e Carmine Napolitano. Sulla base dell’esame autoptico, ricostruisce ancora la sentenza della Cassazione, “era emerso che i chirurghi, dopo avere acclarato la inoperabilità della paziente, mediante esplorazione della cavità addominale, a causa della presenza di multiple affezioni neoplastiche interessanti vari organi e soprattutto di lesioni neoplastiche diffuse ai visceri addominali e alle ovaie, avevano deciso di procedere ad una laparatomia tradizionale per asportare le ovaie e parte della massa neoplastica allo scopo di determinare la stadiazione della malattia”. Nel corso dell’intervento, però, si verificò “la lacerazione del polo inferiore della milza”. Da qui il formarsi di un “rilevante sanguinamento e la conseguente emorragia letale”. I tre chirurghi sono stati condannati, con la concessione delle attenuanti generiche, per omicidio colposo sia dal Tribunale di Roma, marzo 2008, sia dalla Corte d’Appello della Capitale, nel maggio 2009. Inutilmente hanno tentato in Cassazione di sollevarsi da ogni responsabilità, sostenendo tra l’altro che non c’era la prova di “non escludere che un intervento radicale, pur presentando la paziente un quadro clinico di indubbia gravità, avrebbe portato ad un aumento della sopravvivenza e ad un miglioramento della qualità della vita”. Piazza Cavour ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione, ma non ha rinunciato a chiarire la “mancanza di deontologia” da parte dei chirurghi. In particolare, gli ‘ermellini’ hanno rilevato che “il prioritario profilo di colpa in cui versavano gli imputati è stato evidenziato dalla stessa Corte nella violazione delle regole di prudenza, applicabile nella fattispecie, non delle disposizioni dettate dalla scienza e dalla coscienza dell’operatore”.Nel caso in questione, rileva ancora la Cassazione, ”attese le condizioni indiscusse e indiscutibili della paziente non era possibile fondatamente attendersi dall’intervento (pur eseguito in presenza del consenso informato della 44enne madre di due bambine) un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualita’ della vita”.Insomma, ribadisce la Suprema Corte, ”i chirurghi hanno agito ini dispregio al codice deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento terapeutico”.

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