Un pubblico dipendente a seguito di un ordine di servizio, conseguentemente all’assenza del titolare, aveva assunto funzioni vicarie con poteri di firma e coordinamento, ed aveva retto l’ufficio. A seguito di trasferimento, era stato costretto ad una quasi totale inattività e al disimpegno di compiti di addetto alle informazioni generali sulle competenze dell’ufficio, addetto al protocollo della corrispondenza, tanto da essere colpito da vari disturbi di natura psico-somatica che lo avevano indotto, infine, al pensionamento. Domandava, perciò, la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive per lo svolgimento delle mansioni superiori e il risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale “da mobbing” in conseguenza del successivo demansionamento. Una volta accertato il demansionamento professionale del lavoratore, il giudice del merito desumeva l’esistenza del relativo danno in base ad una valutazione presuntiva, riferendosi alle circostanze concrete della operata dequalificazione; e ciò in conformità al principio enunciato dalla Corte di Cassazione secondo cui il danno conseguente al demansionamento va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. Pertanto, la riduzione del danno professionale ad una misura “poco più che simbolica” è stata ritenuta fondata su valutazioni inadeguate. (Avv. Ennio Grassini - www.dirittosanitario.net)

Tags:

Leave a Reply

You must be logged in to post a comment.